A cura di Michele Polignieri
In principio era il formaggio, la ricotta e la scamorza.
Questa era la “fabbricazione” dei latto derivati, opera ingegnosa e di grande delicatezza cui obbedivano i pastori delle estese contrade appulo lucane.
Mungere a mano pecore, capre e vacche, riscaldare a 38 T °C, aggiungere il caglio e attendere il ripetersi della magia: un liquido che si trasforma, gelificato, che docilmente si presta alle cure del casaro, interprete ancestrale e sapiente della trasformazione in formaggio.
Da li, il siero residuo, apparentemente un banale sottoprodotto che una volta acidificato e sbollentato, diventa soffice ricotta, estrema alchimia dono del casaro, prodotto che consentiva già da subito (come si direbbe per un vino novello), il ristoro per la paga del salariato dell’allevamento….(pur non essendo un formaggio poiché ottenuto da siero e non dal latte integrale)
Che tempi e che storia…e poi la pasta filata e le sue forme, scamorze soprattutto nei mesi e stivi, treccine e caciocavallo…appunto.
Dopoguerra italiano; fame, devastazione, ristrettezze….
Il riscatto e la facilità con la quale si avviavano attività commerciali orientate alla vendita e fabbricazione di “generi alimentari”, le cui targhe di latta affisse all’esterno dei negozi durante
gli anni 60, connotavano il primo degli indicatori sociali di una nazione che stava evolvendosi, che passava cioè dalla restrizione al più immediato accesso a derrate alimentari sempre più ricercate (rispetto alle sole matrici di origine vegetale che ebbero da li in poi la sorte di delineare i contorni della dieta mediterranea), indice questo dell’avvio, vagiti forse, dell’incipiente boom economico.
L’evoluzione normativa ci ricorda anche come un banale “libretto sanitario” (di cui ci siamo liberati non più tardi di un decennio fa, con la Puglia fanalino di coda tra tutte le altre regioni italiane), dava la possibilità a chiunque di aprire bottega, sicuramente senza accurata cognizione se non dotati ab origine di una familiare vocazione alla produzione di cibo (non di merce), unica palestra capace di forgiare il giovane apprendista..
Le latterie furono il primo segnale di cambiamento rispetto alla solita vendita “alla minuta”, con l’allevatore produttore che, scampanando ai crocicchi delle strade, captava l’attenzione delle massaie italiche, che accorrevano a quel richiamo con bottiglie alla mano per il riempimento, direttamente dal bidone di latte scarrozzato a dorso di mulo se non del “traìno”, del prezioso alimento; anni lontani che videro, grazie all’intervento delle leggi orientate a garantire la salute dei cittadini, primo moto di ispirazione alla attuale sicurezza alimentare, la sconfitta delle più pericolose zoonosi trasmissibili con il latte, Tubercolosi e Brucellosi, appunto.
Analisi di contesto, si direbbe oggi, per noi mappa e trasformazione di una pratica antica a partire dalla Puglia, anno 1930.
Ne rende testimonianza Stella Moramarco (moglie di Salvatore Dicecca il cui lavoro si incornicia esattamente in quella immagine appena delineata dai bambini festanti al suono del campanaccio, ed il ripetersi cadenziato di tutta la manualità di “mescita” del latte
sfuso, dal bidone alla bottiglia con l’impiego delle consuete “misure di alluminio”, nel chiarore vespertino gravido di gioia e di sani sentimenti oramai dimenticati), che detta le gesta di una storia meridionale dove, per fronteggiare la indisponibilità di frigoriferi quali condizionatori di lunga vita ad un alimento tanto nobile, i due coniugi diedero forma e sostanza ad incarnare il più grandioso fenomeno biochimico di cui forse troppo facilmente ci si dimentica, della caseificazione urbana cioè, figlia di quella pastorale;
Angelantonio, ancor giovane, ne venne folgorato e assieme alla moglie Vittoria, figlia di pastori, ca va sans dire, avvia il primo lattocaseificio urbano.
Storia comune alle tante belle realtà agricole della provincia pugliese, storie inenarrabili ai moderni masticatori compulsivi che non distinguono le differenze tra una fava ed uno scorpione.
Oggi l’alimento latte, non un solo un liquido, viene lavorato ancora da Stella, di terza generazione però, con il dovuto rispetto per garantire al formaggio il trasferimento di quelle ipnotiche note aromatiche che solo un cotico erboso, un pascolo salubre, o semplicemente un fieno profumato, riescono a immortalare.
Latte di primavera, ricco, giallo carico di Beta Carotene, CLA, flavonoidi e Terpeni per una soddisfazione non solo del palato, ma, soprattutto, di tipo nutrizionale, nutraceutica come sempre si abusa dire, e produzione di paste filate (senza correttori di acidità-coadiuvanti tecnologici come l’ acido citrico, almeno tre volte a settimana in base alle richieste ovviamente).
Stiamo parlando dunque di benessere animale, di ginnastica funzionale, di alimentazione naturale ed ogm free, di latte 4.0 e di lavorazione veramente artigianale.
La Puglia, quarto polo zootecnico nazionale, vede così sempre più allargare le maglie di una produzione arcaica mai causa di intolleranze o dismicrobismi intestinali;
Andria, Santeramo in Colle, Gravina, Barletta e Altamura cominciano ad affollarsi di aziende illuminate, segno incontrovertibile di una produzione immacolata.
Siero innesto, caglio e sale per una pasta filata freschissima e di grande personalità, finezza stilistica e “texture” (carnosa direbbe Stella), con
note acidule in bella evidenza a testimonianza di un totale consumo fermentativo del lattosio, regolarmente ed “artigianalmente” trasformato, in cui la fanno da padrone indiscusse, oltre alle mozzarelle e le trecce, le famose provole gialle, la sontuosa burrata ed un pirottino a latte di
capra, ultimo capolavoro dell’enfant prodige dall’arte casara di questa tradizionale famiglia di casa nostra, l’erede spirituale di Stella ed Angelantonio, Angelantonio Tafuno.